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Archive for the ‘Programma 2011’ Category

2011 in review

The WordPress.com stats helper monkeys prepared a 2011 annual report for this blog.

Here’s an excerpt:

The concert hall at the Sydney Opera House holds 2,700 people. This blog was viewed about 12.000 times in 2011. If it were a concert at Sydney Opera House, it would take about 4 sold-out performances for that many people to see it.

Click here to see the complete report.

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Pubblichiamo la terza e ultima serie di foto di Tahar Ben Jelloun. L’autore è Giustino Chemello.

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Questo blog resterà attivo ancora per qualche giorno; poi tornerà nel letargo dal quale si era svegliato lo scorso marzo, quando ha annunciato il programma dell’edizione 2011 di Dire Poesia.

Ringraziamo tutte le persone che lo hanno visitato, e quanti hanno sostenuto in vario modo la nostra rassegna: l’Assessorato alla Cultura del Comune di Vicenza nelle persone di Francesca Lazzari (Assessore), Loretta Simoni, Mattia Bertolini, Carlotta Trombin, Marianna; le Gallerie di Palazzo Leoni Montanari, con Isabella Sala, Elena Milan, Romina Elia, Stefano Viero; l’Officina Arte Contemporanea, con Giovanni Turria e i tanti amici di piombo e di carta; l’associazione PantaRhei e l’agenzia di stampa Charta Bureau; il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati dell’Università Ca’ Foscari di Venezia, e segnatamente il prof. Marco Fazzini; Vicenza Jazz, e in particolare il suo Direttore artistico Riccardo Brazzale; il Festival Biblico, con Toni Pigatto, don Dario Vivian, Giovanni Costantini e Guido Zovico; la Biblioteca Bertoliana di Vicenza, e specialmente Silvia Calamati; gli artisti Giustino Chemello e Silvio Lacasella, che hanno documentato gli incontri fotografando con grande sensibilità e bravura; i giornalisti che ci hanno seguiti, e specialmente Fabio Giaretta, Alessandro Scandale, Silvia Ferrari e Luigia Sorrentino; i bar che hanno accolto e distribuito i cartigli del caffè poeticamente corretto; i poeti, i presentatori e i traduttori che si sono succeduti; il pubblico che è intervenuto ai 10 appuntamenti di quest’anno, e in modo particolare Marzia Zanella, Daniela Caracciolo, Mara Seveglievich, Ivana Cenci e gli altri, tanti amici che hanno partecipato con assiduità e affetto, condividendo, consolando, emozionandosi, ragionando, arricchendo il senso di questi mesi di lavoro per portare a Vicenza un po’ di poesia, nelle sue varie e splendide forme.

Sarà che la poesia, come ripete Ben Jelloun, è necessaria quanto il pane? Eh.

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Ecco la seconda serie di fotografie di Tahar Ben Jelloun. Queste sono state scattate da Silvio Lacasella.

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L’edizione 2011 di Dire poesia si è dunque conclusa felicemente con il grande poeta franco-marocchino Tahar Ben Jelloun.

Il nostro ospite ha vissuto una giornata ricca di appuntamenti e di incontri: in mattinata, affiancato da Eliana Vicari, ha parlato agli studenti di Francese di alcune scuola di città e provincia (soprattutto i licei “Fogazzaro” di Vicenza e “Corradini” di Thiene), rispondendo alle domande che erano state preparate dai ragazzi insieme ai loro Docenti. Nel pomeriggio ha concesso alcune interviste, ha visitato l’Officina per la firma e la stampa del suo inedito, è arrivato a Palazzo Leoni Montanari per essere magistralmente presentato da Paolo Ruffilli, leggere alcune sue poesie (nella traduzione di Manuela Giabardo) e rispondere alle domande del Festival Biblico sul tema del rapporto tra le generazioni, preceduto da un breve saluto di don Dario Vivian e tradotto da Francoise Mattana.

Come si può vedere dalle tre serie di foto che pubblichiamo un po’ alla volta (gli autori della prima sono Stefano Strazzabosco e Giovanni Turria), nel corso della giornata Tahar Ben Jelloun si è anche divertito a volare, a disegnare, a chiacchierare e a scherzare, dimostrando che fare poesia significa avere una visione del mondo, come ha più volte detto e come risulta anche dalla bella intervista che Silvia Ferrari ha redatto per conto del “Giornale di Vicenza” di oggi.

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Venerdì 27 maggio alle 18.00, nel Salone di Apollo di Palazzo Leoni Montanari, il poeta franco-marocchino Tahar Ben Jelloun leggerà le sue poesie e dialogherà con lo scrittore Paolo Ruffilli, che avrà anche il compito di presentarlo al pubblico.

L’incontro si svolge in collaborazione con il Festival Biblico, grazie al quale è stato possibile invitare il nostro presitigioso ospite a chiudere Dire poesia 2011.

Alla serata parteciperà anche Francoise Mattana, che si incaricherà di tradurre le parole che Ben Jelloun vorrà rivolgere al pubblico.

Come sempre, Giovanni Turria metterà a disposizione dei presenti la plaquette con l’inedito che lo scrittore franco-marocchino ci ha inviato in esclusiva, e che nei giorni scorsi abbiamo pubblicato su questo blog.

Saranno disponibili per l’acquisto anche alcuni libri di Ben Jelloun, scelti tra i suoi più rappresentativi.

Durante la giornata, numerosi esercizi del centro serviranno il caffè poeticamente corretto dai cartigli stampati all’Officina e contenenti un frammento dell’inedito mandatoci dal poeta.

Nel corso della mattinata, inoltre, Tahar Ben Jelloun incontrerà gli studenti di Francese di alcune scuola della città e della provincia, per parlare loro liberamente dei temi da sempre al centro dei suoi interessi, e per rispondere alle domande preparate dai ragazzi. L’incontro è riservato esclusivamente agli studenti che hanno già comunicato la loro adesione (attraverso i loro insegnanti di Francese), e pertanto non è aperto al pubblico in generale.

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Con questo appuntamento si conclude l’edizione 2011 di Dire poesia.

Il blog resterà in attività ancora per qualche tempo, dopodiché riprenderà a sonnecchiare fino alla prossima primavera.

Grazie a tutti.

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Tahar Ben Jelloun, poeta, romanziere, saggista e giornalista, è uno scrittore franco-marocchino di fama internazionale. Nasce nel 1944 a Fez (Marocco). Nel 1955 si trasferisce a Tangeri e successivamente a Rabat, dove si laurea in Filosofia. Insegna in alcuni licei del suo Paese e partecipa alla rivista “Souffles”, attorno cui si sviluppa uno dei movimenti letterari più importanti del Nord-Africa. Nel 1971, una circolare del Ministero dell’Interno obbliga all’insegnamento della filosofia in arabo. L’autore si trasferisce a Parigi, dove ottiene un dottorato in Sociologia.

Ben Jelloun ha scritto soprattutto romanzi, ma anche racconti, poesie, opere teatrali, saggi. Nei suoi libri in francese, tradotti
in tutto il mondo, trovano ampio spazio le tematiche  dell’emigrazione, del razzismo, della ricerca d’identità. In Italia, molti suoi libri sono usciti per l’Einaudi di Torino: Creatura di sabbia (1987), Notte fatale (1988; Premio Goncourt nel 1987), Giorno di silenzio a Tangeri (1989), Le pareti della solitudine (1990), Dove lo stato non c’è. Racconti italiani (1991), Lo scrivano (1992), A occhi bassi (1993), L’amicizia (1995), Lo specchio delle falene (1996), L’albergo dei poveri (1999), Il libro del buio (2001), L’hammam (2002), L’amicizia e l’ombra del tradimento (2004), Mia madre, la mia bambina (2006), L’ha ucciso lei (2008), Marocco, romanzo (2010). La Bompiani di Milano ha pubblicato Corrotto (1994), L’ultimo amore è sempre il primo? (1995), Nadia (1996), La scuola e la scarpa (2000), Jenin. Un campo palestinese (2002), Amori stregati. Passione, amicizia,
tradimento
(2003), L’ultimo amico (2004), Non capisco il mondo arabo. Dialogo fra due adolescenti (2006), Partire
(2007), L’uomo che amava troppo le donne (2010). Hanno suscitato grande interesse i due volumi Il razzismo spiegato a mia figlia del 1998 (per il quale gli è stato conferito dall’allora Segretario dell’ONU Kofi Annan il Global Tollerance
Award) e L’islam spiegato ai nostri figli del 2001, entrambi editi da Bompiani.

In italiano, le sue poesie si possono leggere nelle raccolte Stelle velate. Poesie 1966-1995 (a cura di Egi Volterrani, Einaudi, 1998) e Doppio esilio (traduzione di Manuela Giabardo, Edizioni del Leone, Venezia 2009).

Ben Jelloun collabora a testate quali Le Monde e, in Italia, “La Repubblica” e “L’Espresso”, analizzando soprattutto i temi legati all’immigrazione e alla cultura araba e islamica.

Numerosissimi sono i premi e i riconoscimenti dei quali è stato insignito per il suo impegno letterario e sociale.

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Paolo Ruffilli è nato a Rieti nel 1949, ma è originario di Forlì. Si è laureato in lettere presso l’università di Bologna. Da più di vent’anni collabora alle pagine culturali de “Il Resto del Carlino”. Vive a Treviso dal 1972. Fa il consulente editoriale. Dirige la collana di poesia delle Edizioni del Leone di Venezia.

Come poeta ha pubblicato: La Quercia delle gazze (Forum 1972); Quattro quarti di luna (Forum 1974); Piccola colazione (Garzanti 1987, vincitore dell’American Poetry Prize); Diario di Normandia (Amadeus 1990, Premio Montale); Camera oscura (Garzanti 1992); Nuvole (1995; con fotografie di Fulvio Roiter); La gioia e il lutto (Marsilio 2001, Prix Européen); Le stanze del cielo (Gli specchi Marsilio 2008, Premio Nazionale Letterario Pisa).

Sul versante della narrativa e della saggistica, invece, ricordiamo:  Vita di Ippolito Nievo (Camunia 1991); Vita, amori e meraviglie del signor Carlo Goldoni (Camunia 1993); Preparativi per la partenza (Marsilio 2003, Premio delle Donne); Un’Altra vita (Fazi 2010); L’isola e il sogno (Fazi, 2011).

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“Il Giornale di Vicenza” di oggi, 24 maggio 2011, ha pubblicato le domande che Fabio Giaretta ha rivolto ad Anne Waldman dopo la lettura a Palazzo Leoni Montanari.

Per gentile concessione dell’Autore, ripubblichiamo il testo completo qui sotto (con un piccolo omaggio a Bob Dylan, nel giorno del suo settantesimo compleanno):

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Intervista ad Anne Waldman

di Fabio Giaretta

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Mentre declama o canta i suoi versi con la sua voce profonda e vigorosa, accentuando le parole con una gestualità ieratica, Anne Waldman sembra una sacerdotessa intenta a celebrare un rito sciamanico. Accompagnata dalle ipnotiche musiche del figlio Ambrose Bye, con il quale ha appena pubblicato un cd intitolato The milk of Universal Kindness, la poetessa americana, esponente di spicco della Beat generation, ha trasformato il nono appuntamento di Dire poesia, tenutosi a Palazzo Leoni Montanari, in un magnetico flusso di energia.

Grazie alla preziosa collaborazione in veste di interprete di Rita degli Esposti, alla fine dell’incontro abbiamo rivolto alla Waldman alcune domande.

Lei viene definita una poetessa “Beat”. Si riconosce in questa definizione?

Io sono di una generazione successiva rispetto alla Beat generation vera e propria. Però ho lavorato molto intensamente con Allen Ginsberg, William Burroughs, Gregory Corso e in generale con i poeti di questo movimento, con cui condividevo anche gli orientamenti buddisti. Mi riconosco nella Beat generation perché ero molto in sintonia con loro, ad esempio sul fatto che bisogna intervenire in modo attivo sulla realtà. Il movimento Beat era formato da uomini, era meraviglioso che essi fossero così amici tra loro, senza rivalità, ma le donne erano escluse. Così sono arrivata per rivendicare la presenza femminile all’interno di questo movimento.

Per la “Beat generation” e anche per lei l’influsso del buddismo è stato fondamentale. In che modo ha influenzato la sua visione della vita e la sua poesia?

Il buddismo sostiene una visione empatica, di curiosità. A me piace molto questo verso: «I cancelli del Dharma sono infiniti, faccio il voto di entrare in tutti questi cancelli». Devi andare dovunque, anche nei posti scomodi, difficili. Inoltre il buddismo ha una visione non teistica. Devi agire sulla tua consapevolezza, espanderla.

Allen Ginsberg, uno dei padri fondatori della Beat generation, una volta l’ha definita la sua “moglie spirituale”. Che ricordo ha di lui?

Questa definizione l’ha usata davanti a mille persone a Praga dopo la Rivoluzione di velluto. Dovevamo fare una lettura e lui disse: «Vi presento la mia moglie spirituale». Lavoravamo molto bene insieme, senza attriti, perché avevamo la stessa visione delle cose. Proprio per questo ho fondato con lui, nel 1974, a Boulder, in Colorado, la “Jack Kerouac School of Disembodied Poetics” al Naropa Institute. Sentivo che potevo portare la mia generazione all’interno di questo progetto e allo stesso tempo rispettare e onorare la sua generazione.  Allen era sempre occupato, faceva mille cose contemporaneamente, aveva mille progetti. Era sempre pieno di attenzioni e di cure per tutti. Era una persona generosissima e un vero pacifista. Mediava sempre.

Per lei la poesia non si riduce alla scrittura sulla pagina. Altrettanto importante è il momento performativo che assume un valore quasi rituale. Come mai la dimensione orale è per lei così importante?

Perché ti entra nel corpo e tocca i vari centri dell’energia. Nel buddismo ci sono i mantra. Ripeti questi mantra e li senti nel corpo. Non è una cosa mentale. Non è importante solo il suono delle parole ma anche il suono all’interno delle parole. È come un mantra, non ha necessariamente un significato. Molti versi mi sono arrivati all’orecchio per via sonora prima di scriverli. La poesia è un modo di manifestare attraverso l’oralità.

Lei, insieme a molti altri artisti, ha partecipato alla Rolling Thunder Revue di Bob Dylan, leggendaria tournée di concerti tenuti nel 1975. Che ricordo ha di quell’evento?

È stata un’esperienza molto interessante e inusuale. L’atmosfera che c’era tra le persone che viaggiavano insieme era di amicizia. La gente andava e veniva. Io stavo anche lavorando alla Kerouac School, quindi andavo avanti e indietro. Era una sorta di carovana di zingari che faceva degli show. Ho scritto un diario su questo che si intitola Shaman. Bob Dylan era come una Kachina Doll, le bambole rituali degli indiani, con questo cappello e la piuma. Era qualcosa di rituale e sciamanico. Eravamo come dei menestrelli e dei trovatori che viaggiavano insieme.

È ancora in contatto con Bob Dylan?

Solo indirettamente.

Come è apparso chiaro anche da alcune poesie che ha letto come Fossil Fuel, contro le trivellazioni petrolifere, o Problem not solving, scritta nel Ghetto vecchio a Venezia, in cui parla della situazione di Gaza, i suoi versi fanno spesso riferimento all’attualità. La poesia può cambiare qualcosa?

Può cambiare la consapevolezza. Mi sento molto vicina alla visione di Allen che diceva che bisogna risvegliare il mondo a se stesso. Nella mia vita la poesia mi ha risvegliato alla realtà. I poeti devono denunciare ciò che non va perché molti sono addormentati.

Lei ha dichiarato che la nascita di suo figlio è stata un punto di svolta. Come mai?

Nella visione buddista tutti siamo stati madri degli altri e tutti sono madri degli altri. Quindi la nascita di mio figlio ha rappresentato una forte spinta verso un’apertura incondizionata nei confronti di tutti gli esseri.

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Questa volta rendiamo omaggio alle persone che lavorano nell’ombra per Dire poesia.

Lo facciamo con uno scritto che ci ha mandato l’artista Giovanni Turria, vale a dire il principale responsabile delle torchiature cui sono stati sottoposti non solo migliaia di fogli, ma anche poeti,  amici, collaboratori e semplici conoscenti (a volte anche perfetti sconosciuti…).

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10 appuntamenti per 11 poeti vuol dire anche 300 metri quadrati di poesia su carta e davvero molto tempo passato alle macchine da stampa, visto che in occasione di ogni incontro sono state realizzate 290 plaquette numerate, di cui 110 firmate dall’artista, e 1.000 cartigli di caffè a poeta, il che fa 3.190 plaquette e 110.000 caffè corretti di poesia.

Perché questa operazione anacronistica, faticosa, intensa e complicata? Perché usare le vecchie macchine da stampa che nessuno impiega più è come scorrere sulle rotative del tempo: assaporando la forza degli ingranaggi e sentendo il profumo degli inchiostri. Le parole, imprimendosi sulla carta, prendono un senso più profondo e hanno più valore quando vengono assegnate in dono a chi ha assistito agli eventi. E allo stesso modo la strisciolina di poesia da portar via al bar, con il cappuccino del mattino, dovrebbe essere un omaggio benvoluto o inaspettato che reca su di sé anche la cura e l’armonia estetica con cui è
stato composto, ad augurio di un buon mattino.

La liturgia preziosa della stampa è stata assistita non solo dagli officianti officinali, come spesso scrive il Direttore del festival, ma anche da tanti amici che nottetempo e pomeriggio-tempo si sono affacciati all’Officina, a vedere i torchi in azioni e a volte hanno anche generosamente aiutato ad arrotare all’ultimo momento le carte poetiche e a strisciare kilometri di righe colorate sulle plaquette. E’ stato bello sentire da vicino la loro amicizia e gli entusiasmi, la loro curiosità nel capire quanto sia difficile mettere assieme le lettere di piombo e le forme di stampa che danno vita ai componimenti: a tutti questi tenaci “amici di piombo” – Direttore compreso, costretto talora a soccorrere i lavoranti – il mio più sentito grazie per avermi tenuto compagnia.

Giovanni Turria

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Tahar Ben Jelloun ci ha inviato un inedito prezioso: un poemetto intitolato Il disamore, per cui l’officinante Giovanni Turria, con la sua corte di torchiatori più o meno volontari (su cui diremo più avanti), preparerà un’edizione altrettanto preziosa, in modo da concludere degnamente questa terza rassegna di Dire poesia.

Mentre il Maestro olia le macchine e taglia i fogli da stampa, noi pubblichiamo il testo di Ben Jelloun (in francese e in italiano: la traduzione è di Manuela Giabardo).

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Le désamour

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En écoutant Jean Ferrat

Moi aussi je me suis demandé : Que serais-je sans toi ?

Je serais un cœur apaisé

Un temps trempé dans la douceur des choses

Quelques heures volées au tumulte,

Au bruit crissant de ta voix

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Qui parle de bonheur

M’oublie ou me jette à terre

Tu n’as pas les yeux tristes

Mais rouges voisins du feu

Reflet de vengeance

Ton pain pétri dans le fiel

Servi sur un plateau funéraire

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Que serais-je sans toi ?

Ni une heure arrêtée au cadran de la montre

Ni un cœur au bois dormant

Non, je serais un vent léger

L’écume du temps

Une assemblée de papillons

Dans un champ fleuri

Une ruche de miel

Et un sommeil parfait

.

Que serais-je sans toi ?

Toi qui m’as coupé les ailes

Toi qui as marché sur mon corps

Et froissé mon âme

Toi qui m’as offert un linceul

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Que serais-je sans toi ?

En ce temps prodigue en trahison

Durant ces jours où tes silences

Engrangeaient les mots

Qui tombaient de mes yeux

Pendant que tes narines, dilatées par la haine

Répandent l’encens de la mort

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Qui parle de guerre matrimoniale

A le visage déchu

La vie défaite

Et le souffle trahi par l’ail

C’est le parfum de la vengeance

Trempée dans la marmite du sorcier

.

Que serais-je sans toi ?

Qu’une corde résistant aux doigts du démon

Chargé de creuser ma tombe

Je n’aurais jamais connu les sanglots de la déconvenue

Ni les balbutiements de mes nuits hachurées

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Le poète chante joliment

Que le bonheur existe

Ailleurs que dans les rêves

Il jure même qu’il l’a rencontré,

Lui qui sait ce qu’est être deux

Mais moi sans toi

Je n’aurais pas connu l’abîme et l’indignité

Sans toi ma bonté serait belle et gratuite

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Qui parle de bonheur

A les yeux tristes

Le cœur brisé

Parce qu’être heureux

C’est devenir un poème

Que récitent les amants

Avant de se séparer

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Tu m’as donné le frisson

C’était la peur d’avoir peur

L’effroi lu sur ton visage quand il crie vengeance

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J’aurais aimé chanter avec Aragon

Et lui dire qu’il a raison

Mais tu m’as tout pris

Ma vie, mes biens, mon sourire

Et mon humour

Si c’est cela l’amour

Alors je n’ai jamais aimé

Je ne t’ai jamais aimée

.

Le poète a-t-il toujours raison ?

Même quand il souffre

Et détruit l’ancienne oraison ?

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Ma femme n’a pas été mon avenir

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Ensemble, écrire un nouveau livre ?

Ni à l’envers ni à l’endroit

Nous n’écrirons rien ensemble

L’encre pâle de notre histoire

S’est dissoute dans les larmes.

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Quand notre haine sera souvenir

Quand nos chemins monteront au ciel

Et nos années tomberont de fatigue

Quand nos cris, enlisés dans les sables

Réveilleront les morts

Quand mes yeux se poseront sur un horizon

Infiniment bleu, humain absolument,

Quand l’aigle de la colère

Deviendra papillon enchanté

Alors je saurai que sans toi

J’atteindrai au seuil du paradis.

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Tahar Ben Jelloun

2010.

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Il disamore

Ascoltando Jean Ferrat

anch’io mi sono chiesto: che sarei senza te?

Sarei un cuore placato

un tempo intriso di dolcezze

qualche ora sottratta al tumulto,

al suono stridente della tua voce.

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Chi parla di felicità

mi ignora o mi lascia a terra.

Tu non hai occhi tristi

ma rossi come il fuoco

riflessi di vendetta

il tuo pane impastato col fiele

servito su una lapide

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Che sarei senza te?

Né un’ora inceppata sul quadrante di un orologio

né un cuore assopito.

No, sarei vento leggero

schiuma del tempo

un’adunata di farfalle

su un campo fiorito

un’arnia ricolma di miele

e un sonno perfetto

.

Che sarei senza di te?

Tu che mi hai tarpato le ali,

hai camminato sul mio corpo,

hai schiacciato la mia anima

e mi hai offerto un sudario

.

Che sarei senza di te?

In questo tempo prodigo di tradimenti

nei giorni in cui i tuoi silenzi

covavano le parole

cadute dai miei occhi,

mentre le tue narici, dilatate dall’astio,

spandono incenso di morte

.

Chi parla di guerra coniugale

ha il volto sfiorito

la vita disfatta

e il respiro tradito dall’aglio;

è il profumo della vendetta

versato nel paiolo di uno stregone

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Che sarei senza di te?

Solo un cappio che resiste alle dita del demonio

intento a scavare la mia tomba

mai avrei conosciuto il pianto della delusione

né il balbettio delle mie notti interrotte

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Il poeta canta con grazia

che la felicità non esiste solo nei sogni

e giura, anche, di averla incontrata

lui che sa che cos’è essere in due,

ma io, senza di te

mai avrei conosciuto l’abisso e l’abiezione

bella e gratuita sarebbe, senza te, la mia bontà

.

Chi parla di felicità

ha gli occhi tristi

e il cuore infranto

perché questa felicità

è solo una poesia

recitata dagli amanti

sul punto di lasciarsi

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Tu mi hai dato i brividi:

era la paura d’aver paura

il terrore letto nel tuo viso che grida vendetta

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Avrei voluto cantare con Aragon

e dirgli che ha ragione,

ma tu mi hai preso tutto

la vita, i miei beni, il sorriso

e l’umorismo.

Se l’amore è questo

allora non ho mai amato

non ti ho amata mai

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Ha ragione, il poeta, sempre?

anche quando soffre

e distrugge l’antica preghiera?

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La mia donna non è stata il mio avvenire

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Scrivere insieme un nuovo libro?

Né ora né mai

scriveremo più qualcosa insieme

l’inchiostro sbiadito della nostra storia

si è dissolto in lacrime

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Quando il rancore sarà un ricordo

quando le nostre strade giungeranno al cielo

e la fatica schianterà i nostri anni

quando le nostre grida, sprofondando tra le sabbie

risveglieranno i morti

quando i miei occhi si poseranno su un orizzonte

infinitamente blu, totalmente umano,

quando l’aquila dell’ira

diverrà una farfalla incantata

allora saprò

di essere in attesa,

senza di te, sulla soglia del paradiso.

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Segnaliamo il servizio di Alessandro Scandale apparso su “La Domenica di Vicenza” di venerdì 13 maggio 2011.

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Proseguiamo con la serie di immagini scattate agli ultimi incontri di Dire poesia.

Questa volta pubblichiamo le foto del poeta-ministro Juan Ignacio Siles del Valle (alcune, le più belle, sono di Silvio Lacasella). Con Juan Ignacio, la sua compagna Neus, la traduttrice Manuela Magnoni, il pianista Giovanni Guidi e i semplici lavoranti dell’Officina.

Una donna (Anne Waldman) ci ha scosso, parlando di politica; un ex ministro ci ha fatto sognare, parlandoci d’amore.

Dylan cantava: the times they are a changin’; qualcun altro chiosava: “ognuno ha i ministri che si merita”.

Mah.

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