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Almeno 150 persone hanno affollato, ieri, le sale al piano terra di Palazzo Chiericati, dove Yang Lian ha letto in un musicalissimo cinese alcune sue poesie, mentre Valentina Brusaferro e Martina Pittarello ne rendevano la bellezza in italiano, e Marta Nori introduceva e traduceva dall’inglese le parole che il poeta ha premesso ai suoi testi e quelle con cui ha risposto alle domande del pubblico.
Dire poesia si è conclusa nel migliore dei modi, “quadrando” il cerchio aperto da Titos Patrikios, grande amico di Yang Lian: tra l’altro, entrambi hanno sofferto l’esilio, e l’inedito di Yang Lian distribuito al pubblico è ambientato, curiosamente, proprio in un villaggio greco.
Tra il pubblico erano presenti anche molti studenti di cinese del Liceo “Pigafetta”, che prima dell’incontro hanno rivolto al poeta alcune domande, cui Yang Lian ha risposto con la consueta profonda intelligenza.
All’inizio dell’incontro Yang Lian, stupito per la grande affluenza, ha detto che per uguagliare il pubblico di Vicenza bisognerebbe mettere insieme quelli di Londra e di Beijing. Al di là della battuta, ci pare bello sottolineare che tutti i poeti ospiti di Dire poesia hanno espresso meraviglia per la quantità e la qualità del pubblico vicentino, aggiungendo che nemmeno nelle grandi città è consueto trovare delle sale così gremite di persone, attente, partecipi e affettuose, riunite per ascoltare dei versi.
Intanto sul Giornale di Vicenza di ieri è stata pubblicata una bella intervista a Patrizia Valduga: per comodità, e per gentile concessione di Fabio Giaretta, estensore dell’articolo, la pubblichiamo anche qui:
Patrizia Valduga è intrisa di poesia. Insieme al sangue, nelle sue vene, scorrono versi. Versi che la sua voce sa trasformare in un canto straziato e viscerale, dotato di una forza ammaliatrice e incantatoria che ha stregato le numerosissime persone intervenute all’ottavo incontro di Dire poesia per ascoltarla. La Valduga, introdotta dalla puntuale presentazione di Fabio Magro, autore di un’importante monografia su Giovanni Raboni, ha recitato a memoria diversi testi di autori da lei sommamente amati, come Pascoli e Petrarca, ma ha anche offerto un’emozionante antologia dei suoi versi che ha attraversato le principali forme metriche da lei affrontate. La poetessa ha poi chiuso l’incontro recitando, con commosso trasporto, le intense Canzonette mortali che Raboni, uno dei più grandi poeti del Novecento, morto nel 2004, le ha dedicato.
Lei ha condiviso 24 anni di vita e di poesia con Raboni. Può raccontarci com’è nato il vostro incontro? Che ricordo ha di lui?
Alle ore 14.30 del 23 gennaio del 1981 in via Fatebenefratelli 30 (arrivata in automobile da Belluno con un amico pellicciaio) ho suonato il campanello, ubriaca perché avevo paura. Raboni ha aperto la porta (camicia chiara, maglione girocollo nero, pantaloni beige di velluto a coste, desert boots color sabbia). Al suo “buongiorno” ho risposto: “Sono ubriaca e ho bisogno di pisciare”. Poi abbiamo parlato, mi ha voluto dare “La fossa di Cherubino”, ci ha scritto la dedica, mi sono inginocchiata per leggerla e mi ha baciata (direi alle 14.45).
Raboni è il mio maestro e il mio amore, è una struttura della mia mente, scorre nelle mie vene.
Nello scritto contenuto nella sua raccolta Lezione d’amore si legge: “Scrivere è esposizione rituale alla morte, per vincere, per un istante, la paura della morte”. La morte, in effetti, è fortemente presente nei suoi versi…
Non ce la metto io con intenzione, viene fuori da sola. Sono così ipocondriaca e piena di attacchi di panico, che passerei volentieri ad altro.
Per quale ragione ha imparato e continua ad imparare così tanti versi a memoria?
Già a otto anni, pur non capendo nulla, ho imparato a memoria Davanti a San Guido che era nell’antologia di mia sorella più grande. So a memoria tanti versi perché mi servono contro le paure. Certo non funzionano sempre. Per esempio appena ho imparato a memoria L’ultimo sogno di Giovanni Prati ha avuto un effetto strepitoso. Ha fermato un attacco di panico in metropolitana, mi ha rasserenata, ma dopo due, tre applicazioni bisogna impararne un altro e poi un altro ancora. Per me la poesia, soprattutto degli altri, è un conforto.
Nei suoi testi, ha sempre rifiutato il verso libero, recuperando versi classici e forme chiuse. Come mai vi è in lei questa predilezione?
Amo anche i cosiddetti versi liberi, che – peraltro – liberi non sono mai per davvero; ma io non li so fare: se non ho una gabbia formale, non so quando andare a capo. Penso che, oltre alle sei funzioni indicate da Jakobson per la lingua, la poesia possieda anche una funzione erogena, produttrice di piacere. Questo piacere è dato dalla successione ordinata di suoni e di ritmi. Amo la forma chiusa perché mi dà più piacere di quella aperta.
L’aneddoto sulla nascita del suo primo sonetto è molto gustoso. Può raccontarcelo?
Il primo sonetto l’ho scritto per sedurre un professore dell’università Ca’ Foscari e ci sono riuscita. Però il piacere che ho provato nello scrivere il sonetto è stato di gran lunga superiore a quello che ho provato accoppiandomi con il professore. Con lui è finita subito, invece con la poesia è andata avanti.
Nella sua poesia l’erotismo ha un ruolo di primissimo piano. Come mai?
Chi gode non parla di sesso; sono i disgraziati come me, il cui piacere difficile col tempo finisce per diventare quasi impossibile, che si sfogano così. Una volta ho risposto in questo modo alla domanda “Perché scrivi”: per cavare un po’ di piacere dalla lingua quando non mi riesce di cavarlo altrove.
In Per una definizione di poesia lei dice però che se oggi le venisse fatta la domanda: Perché scrive, risponderebbe: Perché sono una persona religiosa. Cosa intende dire?
Non mi basta più il piacere sensuale di una successione ordinata di suoni e di ritmi. Ho bisogno di un senso più forte, di qualcosa che nutra la mente e non sia solo piacere che nutre l’udito. Per me la religiosità consiste nella fede nella parola come strumento di responsabilità morale.
Fabio Giaretta
P.S. A una nostra amica, frequentatrice degli incontri di Dire poesia, è stato sottratto il registratore digitale che aveva appoggiato sul tavolo dietro al quale sedeva Patrizia Valduga.
Se qualcuno lo rintracciasse, è pregato di lasciarlo nella portineria di Palazzo Leoni Montanari.
Errare humanum, perseverare diabolicum.
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