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Comunicato Stampa

 

 

Il poeta di Gemona del Friuli (UD), sarà ospite mercoledì 17 aprile a Palazzo Leoni Montanari per il terzo appuntamento della rassegna promossa da Comune di Vicenza – Assessorato alla Cultura e Intesa Sanpaolo

DIRE POESIA “TORNA” IN ITALIA CON IL

FRIULANO PIERLUIGI CAPPELLO

 Considerato uno dei più grandi poeti italiani contemporanei,

Cappello ha ottenuto prestigiosi riconoscimenti tra cui il Premio

Viareggio-Rèpaci. Introduce la serata il poeta, critico

e saggista padovano Maurizio Casagrande

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Pierluigi Cappello (dx) con Maurizio Casagrande

Pierluigi Cappello (dx) con Maurizio Casagrande

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(Vicenza – 12.04.2013)  –  Dopo l’appuntamento con il canadese Barry Callaghan, dire poesia 2013, il mosaico di incontri con i nomi di spicco della poesia nazionale e internazionale contemporanea promosso dal Comune di Vicenza – Assessorato alla Cultura e Intesa Sanpaolo, “torna” in Italia e lo fa ospitando uno dei nostri più grandi poeti contemporanei, il friulano Pierluigi Cappello. Cappello, che con i propri versi incontrerà il pubblico mercoledì 17 aprile a Palazzo Leoni Montanari (ore 18.00), è uno di quei poeti che vive nelle sue opere l’esperienza del “doppio”, scrivendo in friulano e in italiano, per dare vita a “un mondo che va cantato, nella sua prepotente e sensitiva natura, nell’eco delle voci e nell’ombra dei volti e nella traversia delle cose che contano, con trasporto amoroso e con tenace patire”, come recitano le motivazioni con cui gli è stato assegnato il prestigioso Premio Viareggio-Rèpaci nel 2010. Nelle sue liriche la memoria diventa un binario fondamentale da percorrere, priva però di nostalgia, ma che assume la forza del ricordo lucido da investigare e in cui scavare, per trarne insegnamenti ed esperienza. Un’esperienza che talvolta si fa dolore, dello spirito e della carne, una condizione che per Pierluigi Cappello è divenuta dura realtà, dopo che nel 1983, a soli 16 anni, un maledetto incidente lo ha costretto su una sedia a rotelle.

Cappello, che attualmente è impegnato in un’intensa attività artistica e di divulgazione della poesia contemporanea anche nelle scuole e nelle università, sarà introdotto dal padovano Maurizio Casagrande, autore di saggi critici, recensioni, interventi, racconti e liriche apparsi su numerosi periodici e riviste, e già ospite nella sezione “Off” dell’edizione 2011 di Dire poesia.

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Dire poesia 2013 è un progetto del Comune di Vicenza – Assessorato alla Cultura e Intesa Sanpaolo, in collaborazione con il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali Comparati e il Dipartimento di Studi sull’Asia e sull’Africa Mediterranea dell’Università Ca’ Foscari di Venezia e con L’Officina arte contemporanea di Vicenza, per la cura di Stefano Strazzabosco.

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Pierluigi Cappello è nato a Gemona del Friuli (Udine) nel 1967, ma è originario di Chiusaforte dove ha trascorso l’infanzia e l’adolescenza. Attualmente vive a Tricesimo, dove è impegnato in un’intensa attività artistica e di divulgazione della poesia contemporanea anche nelle scuole e all’università. Con altri poeti della sua regione ha fondato nel 1999 e ha diretto per qualche tempo la collana di poesia “La barca di Babele” che, edita dal Circolo Culturale di Meduno, accoglie e diffonde autori significativi di area veneta, triestina e friulana. Ha pubblicato i seguenti libri di poesie: Le nebbie (Campanotto, Pasian di Prato 1994 e 2003), La misura dell’erba (Gallino, Milano 1998), Amôrs (Campanotto, Pasian di Prato 1999), Il me Donzel (Boetti, Mondovì 1999; premi Città di San Vito al Tagliamento e Lanciano-Mario Sansone), Dentro Gerico (Circolo Culturale di Meduno, Meduno 2002). Con Dittico (Liboà, Dogliani 2004) ha vinto il premio Montale Europa. Assetto di volo (Crocetti, Milano 2006), che riunisce gran parte dei suoi versi, è stato vincitore dei premi Pisa (2006) e Bagutta Opera Prima (2007). Nel 2008 ha pubblicato la sua prima raccolta di prose e interventi intitolata Il dio del mare (Lineadaria, Biella 2008). Nel maggio 2010 pubblica Mandate a dire all’imperatore (Crocetti, Milano 2010), col quale vince il premio Viareggio-Rèpaci. Sue poesie sono inoltre apparse in numerose riviste e antologie. Ha tradotto in friulano, tra gli altri, Vicente Aleixandre, Arthur Rimbaud, Carlos Montemayor; il suo ultimo lavoro di traduzione è Rondeau. Venti variazioni d’autore (Forum, Udine 2011). Nel 2012 il presidente Giorgio Napolitano gli ha conferito il prestigioso premio Vittorio De Sica.

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Maurizio Casagrande è nato a Padova nel 1961 e insegna Lettere nelle scuole superiori. Dopo la laurea in Filosofia ha maturato interesse per la letteratura e la poesia occupandosi, in sede critica, di poeti e scrittori contemporanei. I suoi scritti – saggi critici, recensioni, interventi, racconti, liriche – sono apparsi su numerosi periodici e riviste, quali Atelier, La Battana, Tratti, La Clessidra, Madrugada, L’Ippogrifo, Il Gabellino, Voltri Oggi, AltroVerso, Oltre, Yale Italian Poetry, Hortus, Daemon. Suoi contributi, inoltre, sono presenti nei volumi Tomizza e noi (Atti della seconda edizione del Convegno di studi su Fulvio Tomizza, Umago 2001), Da Rimbaud a Rimbaud (Il Ponte del Sale, Rovigo 2004), I Surrealisti francesi (Stampa Alternativa, Viterbo 2004). È membro fondatore dell’Associazione per la poesia “Il Ponte del Sale” di Rovigo, per la quale ha curato nel 2006 il libro di interviste In un gorgo di fedeltà. Dialoghi con venti poeti italiani (con fotografie di Arcangelo Piai). Nel gennaio 2011 è uscito il suo primo libro di poesie, Sofegón carogna (prefazione di Luigi Bressan, Il Ponte del Sale, Rovigo). Per le edizioni “Cofine” di Roma sta lavorando, con Matteo Vercesi, ad un’antologia di 16 poeti in dialetto del Veneto, a cavallo fra XX e XXI secolo.

 

L’ingresso a tutti gli appuntamenti di Dire poesia è libero, fino ad esaurimento dei posti disponibili.

Ad ogni appuntamento, l’artista Giovanni Turria de L’Officina Arte Contemporanea stamperà una plaquette numerata con un inedito dei poeti, da distribuire  gratuitamente al pubblico. 

Nei luoghi delle letture saranno inoltre disponibili i libri degli autori ospiti di Dire poesia.

Per informazioni:

Assessorato alla cultura del Comune di Vicenza tel. 0444.222101

Gallerie d’Italia – Palazzo Leoni Montanari tel. 800.578875

Blog > https://direpoesia.wordpress.com/

www.comune.vicenza.itwww.palazzomontanari.com

 

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Informazioni per la stampa e accrediti:

Ufficio Stampa > CHARTA BUREAU

Antonio Tosi 349.5384153 – ufficiostampa@charta-bureau.it

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Pubblichiamo, per gentile concessione degli Autori, due poesie di Fabio Masetti, vincitore del poetry slam 2013, e due di Delia Fraccaro, seconda classificata. Le foto in fondo ai testi sono di Simone Garbin, che ringraziamo.

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Fabio Masetti

vivo dove fu kappler

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Vivo in via tasso,
al 155
negli uffici dove fu,
kappler l’assassino,
nello stesso letto, io
ironia della sorte
da trent’anni romano, io
col mito resistente
col nonno partigiano in liguria
bella ciao come ninna nanna
ora ci dormo e ogni sera
chiudo gli occhi e torno al ’43,
con mio padre in fasce,
come adesso che scrivo,
guardo il muro e penso
la sorte che sa persistere
che muta in memoria l’ironia
incisa sui muri scampati
rimbombano al loro abbattersi
come un’eco che non spegne
le scritte sulla calce riverberanti
come voci scordate urlano i solchi
col il favore del caso trasmettono
come dna l’orrore concatenato
come fossero proteine, le parole,
geni urlanti dagli occhi rapidi,
increduli, sbarrati invocano
una madre, la sua nenia
la ninna nanna implorano,
con gli occhi un qualcuno
che continui a raccontare
la resistenza, figli, la resistenza,
per chi non può più ricordare
la resistenza, figli, la resistenza

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topi nella nuvola elettromagnetica di dati

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cammino nella nuvola elettromagnetica di dati
ubiqua interfaccia pre.senza
ma so ch’è un sogno, non ne esco ma è un sogno
non mi muovo ma scorre, ogni cosa, attorno a me, scorre, come un flusso.

dove sono, non sono. dov’è la vita non so
ma so, d’improvviso, che non c’è libertà senza contatto
e ci resta solo la connessione chiusa di circuiti operazionali,
gli accendo e spengo manifesti della combinatoria astratta
senza vie d’uscita, priva della vertigine, potenza di calcolo che

sbanda, transiste e resiste, pura mistificazione algoritmica,
come una cavia nel labirinto circola tra le pareti mobili e bianche
smemore di nota significativa relazione statistica
utile comprova scienza umana
cammino sulla vita di chiunque,
come ridotta in salita
arranca, fatica. arranca e fatica
certifica un’altra morte discreta

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Delia Fraccaro

Se litigassi con la esse

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Se litigassi con la esse

Sarebbe sempre

Scossa scatto scoppio

Sputo di esse

Soprattutto con chi inizia per esse

.

Se concordassi con la esse

Un patto di essequiete

Di quietessenza

Stipulerei trattati stracciati da esse inservibili

.

Se praticassi più spesso la esse

Sarei

Serena sopita socievole

Mi sdraierei

Solo se sapessi scendere a essepatti

.

Se scendessi a essepatti

Spiatterei i piatti spaccati per esse senza senso

Sperando solo che tutto esploda

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Se tutto esplodesse

Serebbe sempre la stessa storia

Stante il fatto che

Smarrita

Aspetterei di sbottar per una nuova esse

.

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Era inevitabile che

.

Era inevitabile che finisse Così

Così presto

O forse è tardi

.

Su fai presto che è tardi

Ma devo prima finire

Ma

Hai appena detto che era inevitabile che finisse

.

Dissi questo ancora troppo presto

Ancora prima che tutto finisse

Per farlo finire prima

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Quanto prima?

.

Quanto prima

Anche prima del previsto

Perché era inevitabile che si facesse tardi

Nonostante il tuo far presto per finire prima

Ma ormai è tardi

E sei fai presto

Finiamo prima

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Ancora pochi giorni e questo blog tornerà ad assopirsi, come un golem silente del web.

Intanto segnaliamo l’articolo uscito sul Giornale di Vicenza di ieri, 21 giugno 2012.

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Edoardo e Luciana Sanguineti, Giovanni Turria, Stefano Strazzabosco, Romina Elia, Diego Conte il pomeriggio di mercoledì 28 aprile all’Officina, per la firma dei “fogli” del Sonetto vicentino.
Gli scatti sono di Giustino Chemello (grazie).

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Fabio Giaretta ci ha mandato la trascrizione integrale della sua intervista a Sanguineti. Grazie.
Rispetto a quella pubblicata dal “Giornale di Vicenza” un paio di settimane fa (e presente anche in questo blog), la nuova redazione aggiunge un diverso cappello e altre splendide osservazioni nelle parti omesse. Vale la pena leggerla:

Io Sanguineti me l’ero sempre immaginato come un rivoluzionario iconoclasta, burbero e imbronciato, animato da un furore avanguardistico pronto a travolgere tutto e tutti. Invece, la persona che ho intervistato per il Giornale di Vicenza il 28 aprile dopo l’incontro di Dire poesia 2010 (rassegna poetica tenutasi a Vicenza tra marzo e maggio che vanterà sempre, tra i suoi numerosi meriti, quello di avere offerto a Vicenza la possibilità di incontrate il poeta genovese in quella che, molto probabilmente, è stata una delle sue ultime apparizioni pubbliche) si è rivelata totalmente diversa dalle mie infondate fantasticherie. Mi hanno enormemente spiazzato e colpito, oltre alla sua acutezza, alla sua guizzante vivacità intellettuale, alla sottile ironia, la sua squisita gentilezza, l’affabilità, la generosa disponibilità, la mancanza di qualsiasi snobistico distacco. La nostra intervista doveva durare un quarto d’ora. Inutile dire che durò molto di più. Sanguineti era un conversatore straordinario. Come ha scritto Antonio Gnoli, sapeva «essere intrigante, leggero, curioso, paradossale, come un frutto tardivo del pensiero libertino». Da quel mondo aveva ereditato «la nettezza di giudizio, la capacità provocatoria e quel gusto per l’oralità che si lascia facilmente avvolgere dall’immoralità». Sanguineti infatti non amava «le convenzioni , la prevedibilità, l’eccesso d’ordine, i discorsi edificanti». Quando fui costretto a spegnere il registratore perché lo reclamavano per la cena, avevo ancora mille domande in mente che avrei voluto rivolgergli. Avevo intenzione di ampliare telefonicamente questa nostra intervista, ma ora purtroppo non sarà più possibile. Rimane il privilegio di averlo potuto incontrare. (Voglio qui ringraziare anche Stefano Strazzabosco, lodevole curatore della rassegna, per aver permesso questo incontro). Di seguito riporto l’intervista integrale, uscita in forma un po’ ridotta nel Giornale di Vicenza del 4 maggio 2010.

Quale importanza hanno avuto secondo lei la Neoavanguardia e il Gruppo 63?
Credo sia stato un fenomeno importante non tanto in quanto gruppo di per sé ma soprattutto perché sciolse una specie di tabù. La cosa si può anticipare perché nel ’61 esce l’antologia dei Novissimi curata da Giuliani. Quella fu una rottura nella poesia italiana molto forte. Quasi tutti eravamo poeti, in tutto cinque, che avevano già pubblicato, però la raccolta dei nostri testi insieme diventò una sorta di manifesto e produsse un effetto molto forte. Cominciava un’epoca molto diversa. Come disse Arbasino, era ammesso che l’ansia di nuovo si manifestasse in America, in Europa, ad esempio con la nouvelle vague, le nouveau roman e via discorrendo ma non in Italia. Anche chi leggeva libri e aveva una qualche conoscenza di Kafka, Joyce, Proust eccetera, in fondo era poco influenzato. Noi allora rompemmo un tabù. Il gruppo ebbe il merito di incitare ad una nuova figura di intellettuale che non era più il puro letterato della tradizione ermetica e neppure neorelista, che in poesia aveva dato peraltro risultati molto modesti. La rottura del tabù fece sì che di colpo si pensò un intellettuale che fosse al corrente con la linguistica, lo strutturalismo, la psicanalisi, la sociologia e via dicendo e non quel letterato puro della tradizione ermetica. Questa fu l’influenza più forte, influenza che si spense con il ’68. La politica disfa il gruppo: c’è chi non ha nessun interesse politico e c’è chi milita per questo o quel partito, non necessariamente lo stesso.

Quale eredità è rimasta oggi di quell’esperienza?
È rimasta senza più confessarla. Quella che era la forza di contestazione, il voler essere diversi dalla vecchia figura di intellettuale non c’è più. I poeti vanno al Costanzo show, spesso magari anche in trasmissioni serie, come quella di Fazio. Se uno fa un nuovo disco, un nuovo libro, va lì, perché è lanciato, per una settimana ottiene attenzione e successo, entra magari in testa alle classifiche, poi però, dopo poco, si spengono gli entusiasmi. Il peso però che ebbe quell’esperienza fu all’inizio molto forte, tutti cambiarono il modo di scrivere, da Pasolini a Luzi a Moravia a Zanzotto. Smisero quel loro atteggiamento che era molto ermetico, neoermetico, postermetico e capirono che facevamo parte dell’Europa e del mondo. Si svecchia insomma la poesia italiana.

Nelle sue poesie si nota una grandissima attenzione per la corporalità. Per quale ragione?
Ci sono molte ragioni. Prima di tutto io sono un materialista, proprio nel senso del materialismo storico. L’anima per me coincide con il mondo psichico, che certamente ha una sua esistenza se interpretato soprattutto in termini psicanalitici. Io poi con gli anni sono diventato sempre più groddeckiano. Groddeck era una specie di strano personaggio che diceva alcune cose assai poco attendibili ma ebbe anche intuizioni straordinarie. Freud lo ammirò molto, anche se lo addomesticò, nel complesso aveva idee diverse, però il concetto di Es inteso come inconscio profondo, lo riprese da lui. Noi siamo corpi. Questa è la mia idea fondamentale. Raccontare una storia di un individuo è prima di tutto la storia di un corpo. Noi nasciamo animali, poi cerchiamo di addomesticarci socialmente, tuttavia passare dalla natura alla storia è una cosa difficilissima. Passare dalla bestialità originaria a un tentativo di addomesticamento, di cultura, di storicità, è una fatica terribile sia per chi deve compierla sia per chi deve porla in atto; per un bambino diventare conscio e adulto è faticosissimo ed è faticosissimo anche per chi se ne prende cura. Addomesticare un bambino è una cosa durissima. Poi ci sono certamente ragioni anche più soggettive, cioè un forte interesse per la tematica del corpo, da un lato come corpo del piacere, come luogo di estasi, che comporta tutta la sfera dell’erotico e del desiderio, e dall’altro lato come luogo di sofferenza, di patimento e infine di dissolvimento e di morte.

La sua ricerca si basa sull’arte di saper bene come scrivere male. Che cosa voleva dire con questo paradosso?

Era un paradosso perché voleva rifiutare lo stile. C’è un mio verso che dice: oggi il mio stile è non avere stile. Da un lato vuol dire che non voglio chiudermi in una maniera di scrittura, in uno stile. Quindi in ogni libro che faccio, anche nelle traduzioni, nei saggi, cerco di affrontare problemi nuovi. Dall’altro lato non avere stile nel senso corrente della parola. Essere un uomo che ha uno stile vuol dire avere garbo e basta. Rifiutare uno stile, in questo senso, significa rinunciare a quella sorta di educazione cortese che spesso nasconde un’insincerità, una falsa gentilezza. Questa idea nacque in Olanda. Ero in Olanda con un poeta tedesco. Parlavamo dell’arte di scrivere male partendo dal problema del tradurre. Sapere bene come scrivere male, che agli occhi della gente può apparire come una mancanza di stile, di eleganza, è un modo di cercare di dire la verità.

I suoi versi nel corso degli anni si sono aperti sempre più alla quotidianità. In una sua poesia-ricetta si legge: Per preparare una poesia, si prende un piccolo fatto vero (possibilmente fresco di giornata)… Come mai è nato in lei questo bisogno?
La poesia che lei cita è molto ironica, si presenta come una ricetta di cucina. Ho cercato di affrontare la quotidianità. Questa poetica del piccolo fatto vero è diventata dominante in una lunga fase della mia scrittura anche se come al solito cercavo di non chiudermi in uno stile. Però questa riconoscibilità del fatto vero, dove sono indicati i luoghi, le persone sono riconoscibili, c’è il numero della camera d’albergo, questo eccesso di precisione mi tentava molto. Mi tentava molto passare da una poesia relativamente più astratta, usiamo questo termine, ad una poesia iperconcreta. Un’evidenza dell’esistenziale o come si diceva una volta, con un termine caduto di moda, l’evidenza dell’esistentivo.

Qual è il suo giudizio sulla poesia contemporanea?
Come accennavo prima, con la fine degli anni Settanta, e non solo in Italia, la poesia diventa una questione di successo. Si vuole vendere. Il tentativo di mercificarsi era esattamente l’opposto di quello che le avanguardie storiche avevano praticato. Esse sostenevano l’idea della non merce e quindi erano contro la museificazione. Noi avevamo cercato di riprendere come punto di forza del gruppo questa idea. Molto è rimasto di questo effetto di rottura però indebolendosi completamente. Sono ancora largamente utilizzati elementi cominciati solo nel gruppo, come ad esempio certi modi di linguaggio, però tutta la forza contestativa si è spenta. Si vuole successo.

Nel nostro mondo mercificato, cosa dovrebbe fare la poesia?
Io credo che il problema sia, e in questo sono un materialista storico, riuscire ad essere realisti. Ovviamente lei mi dirà, e chiunque altro mi direbbe, cosa vuol dire essere realisti? È questo il problema. Evidentemente ciascuno di noi ha un’opinione della realtà e di che cosa la rappresenti autenticamente. Gramsci diceva una cosa molto importante: nella cultura non è importante avere nuove idee, chiunque è capace di sognare mondi belli, rosei e del resto temi di questo genere erano già presenti in Marx e in Engels. Bisogna invece cercare di indicare le linee di sviluppo, che sono continue, il mondo infatti muta continuamente. Allora se io ascolto le notizie, leggo i giornali, mi informo, eccetera, devo continuamente aggiornare il mio modo di percepire la realtà. Questo è il problema. Da questo punto di vista, è poco importante la posizione politica finale che può assumere un autore. Quello che è importante è che da un lato vi sia una pulsione anarchica originaria di rivolta e di protesta, e dall’altro lato la capacità di dire: questa è la realtà. Questo oggi interessa assai poco. I poeti dicono: non siamo impegnati, destra e sinistra non significano più nulla.

Le sue poesie hanno sempre un carattere fortemente giocoso. Questo appare evidente anche nel sonetto inedito che lei ha scritto per Vicenza…
La poesia ha ripreso sempre di più delle forme di gioco verbale, ma non gratuito, vicino alla ricerca della contrainte, della costrizione. Scrivere un sonetto vuol dire accettare certe regole. Se la regola viene accettata esasperando le astuzie di complicazione e di autocostringimento, vuol dire che non si sta cercando tanto il puro gioco ma di sperimentare nuove forme di linguaggio. Il sonetto che ho scritto per Vicenza è forse allo stato attuale il sonetto più acrobatico che ho fatto per le complicazioni con cui è costruito, le allusioni che vi sono presenti. Quindi c’è un aspetto di gioco. C’è una frase famosa di Hölderlin, che piaceva molto a Heidegger, che dice: la poesia è il gioco più serio che ci sia. Credo che questo elemento apparentemente di gioco, di divertimento, può diventare uno strumento molto serio. Modificare una parola, un verso, complicarlo, non è un gioco arbitrario, ma molto serio perché attira l’attenzione sul linguaggio e sulle parole. Bisogna stare attenti alle parole che si usano. Bisogna portare l’attenzione sul peso che ha il linguaggio. Dimmi come parli e ti dirò chi sei.

Lei si è definito un ottimista catastrofico. Cosa intende dire esattamente con questa definizione?
L’ottimismo catastrofico nasce da questo: io penso che siamo alle soglie di una catastrofe economica e sociale senza confine. Questa è sempre più vicina. Oggi è successo alla Grecia, al Portogallo, domani capiterà anche da noi. Sta capitando dappertutto, gli Stati Uniti sono già completamente investiti, Obama non mi piace assolutamente. Gli unici che svolgono una politica, può piacere o meno, molto astuta, sono i cinesi e gli indiani. Ottimismo invece è legato a quello che diceva Gramsci: l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Proprio perché sono un pessimista catastrofico e considero che la catastrofe sia già avvenuta, semplicemente si tratta solo di prenderne coscienza, bisogna cercare di moltiplicare l’ottimismo della volontà. Il tempo è pochissimo. È necessario che rinasca una coscienza di classe della massa enorme di proletari e sottoproletari di fronte alle élite di potere che è dei Putin, degli Obama, dei Berlusconi. Bisogna riprendere una coscienza critica di classe. Adoro quello che diceva Benjamin: Quello che ha rovinato il mondo è l’idea socialdemocratica riformistica per cui bisogna pensare alla felicità dei figli. Lui diceva invece che il problema è vendicare le sofferenze dei padri. La poesia può servire a far prendere coscienza di come stanno le cose.

Sanguineti quindi è ancora un poeta rivoluzionario…
Sì, sì è una parola che mi piace molto. Non di riforme abbiamo bisogno ma di rivoluzione nel senso marxiano della parola.

Fabio Giaretta

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epilogo, ovvero sonetto

posso anche, caro mio, chiudere in versi
spiegando che si illude, per sedurre
(e molto ci si illude) con diversi
accorgimenti: vedi che ridurre
a tutto si può un niente (con perversi,
come noi, poliformi) onde condurre
il tutto a un niente (e qui, bene conversi
e convertìti, è possibile addurre
esempi, i favorevoli, gli avversi,
senza fine, onde, quindi, indurre e abdurre
abducendo, inducendo, i presi, i persi
che noi saremo: e aiuto, occurre, accurre!)
lunga è la storia, e me, qui, mi congedo:
io ho detto e molto e poco, forse, credo:

(Genova, 30 agosto 2009)

Grazie alla segnalazione di un’amica, pubblichiamo questo testo recente e poco noto di Edoardo Sanguineti.
Il sonetto è tratto da Capriccio oplepiano. Pretesti (Biblioteca oplepiana, Napoli 2010).
Altre informazioni sull’OPLEPO sono reperibili nel sito dell’Opificio di cui Sanguineti era Presidente.
Sul “Giornale di Vicenza” di oggi, due articoli ricordano la sua traiettoria di intellettuale (Giulio Galetto) e l’ultima visita a Vicenza (Guido Neri).

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Vale la pena segnalare le parole con cui Niva Lorenzini ricorda Edoardo Sanguineti sul “Manifesto” di oggi.
L’articolo inizia con questa ottava tratta dal Novissimum testamentum (’82):

“non dico avere pena, compassione,
pietà, cordoglio, commiserazione,
misericordia con compatimento,
con condoglianza, con rincrescimento:
non dico avere tormento, corruccio,
tristezza, angoscia, lutto, pianto, cruccio:
ma goduria e tripudio, in buona fede,
perché solo chi muore si rivede…”

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Edoardo Sanguineti è morto qualche ora fa, in un ospedale di Genova. Si era sentito male stamattina.
Siamo vicini come possiamo ai figli e alla sua Luciana, la compagna di tutta la vita.
A Vicenza, lo scorso fine aprile, ci aveva confessato di essere appeso a un filo.
Subito dopo aveva sorriso.

Proprio oggi, sul “Corriere della Sera”, è uscito un suo scritto dal titolo “Homo ridens”. Eccolo.

Edoardo Sanguineti a Vicenza, lo scorso fine aprile

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Pubblichiamo, per gentile concessione dell’autore, l’intervista a Edoardo Sanguineti realizzata da Fabio Giaretta la sera di mercoledì 28 aprile, e pubblicata su “Il Giornale di Vicenza” di ieri, martedì 4 maggio.
Sanguineti ha più volte dichiarato che parlare lo aiuta a pensare, o che il pensiero gli nasce in bocca, quando parla (per esempio, appunto, quando risponde alle domande dei giornalisti).
Chi ha assistito all’intervista può testimoniare che quel pensiero sgorgava limpido e preciso sulle labbra mentre veniva formulato, e produceva qualcosa di simile a un campo magnetico.

Il sesto incontro di Dire poesia ha portato a Vicenza uno dei nomi più noti della poesia contemporanea, Edoardo Sanguineti. Il poeta genovese ha ipnotizzato il numerosissimo pubblico accorso a Palazzo Leoni Montanari leggendo, con una voce volutamente monocorde e antiretorica, due sue composizioni, Postkarten, che comprende poesie fatte di immagini di viaggio e di tic linguistici, e Alfabeto apocalittico, estrosa serie di 21 ottave, una per ogni lettera dell’alfabeto italiano. Ad accompagnarlo c’era Stefano Scodanibbio, che con il suo prodigioso contrabbasso ha creato un suggestivo doppio musicale, su cui si sono innestati i versi di Sanguineti.
Alla fine dell’incontro abbiamo rivolto alcune domande al poeta, partendo dal suo dirompente esordio poetico.

Quale importanza hanno avuto secondo lei la Neoavanguardia e il Gruppo 63?
Credo che sia stato un fenomeno importante, non tanto in quanto gruppo di per sé, ma soprattutto perché sciolse una specie di tabù. La cosa si può anticipare a prima del ‘63 perché nel ’61 esce l’antologia dei Novissimi. Quasi tutti eravamo poeti, in tutto cinque, che avevano già pubblicato, però la raccolta dei nostri testi insieme diventò una sorta di manifesto e produsse un effetto molto forte. Il gruppo ebbe il merito di incitare ad una nuova figura di intellettuale che non era più il puro letterato della tradizione ermetica. La rottura del tabù fece sì che di colpo si pensò ad un nuovo tipo di intellettuale, al passo con la linguistica, lo strutturalismo, la psicoanalisi, la sociologia e via dicendo. La Neoavanguardia insomma svecchiò la poesia italiana. Questa fu l’influenza più forte, che si spense con il ’68. La politica ruppe il gruppo.

Quale eredità è rimasta oggi di quell’esperienza?
È rimasta senza più confessarla. Quella che era la forza di contestazione, il voler essere diversi dalla vecchia figura di intellettuale, non c’è più. Verso la fine degli anni Settanta, non solo in Italia, la poesia è diventata una questione di successo. Si vuole vendere. Il tentativo di mercificarsi era esattamente l’opposto di quello che le avanguardie storiche e il Gruppo 63 avevano praticato. Molto è rimasto dell’effetto di rottura che abbiamo introdotto però tutta la forza contestativa si è spenta.

Nelle sue poesie si nota una grandissima attenzione per la corporalità. Per quale ragione?
Ci sono molte ragioni. Prima di tutto io sono un materialista storico. Noi siamo corpi. La storia di un individuo è prima di tutto la storia di un corpo. Poi ci sono certamente ragioni più soggettive cioè un forte interesse per la tematica del corpo, da un lato come corpo del piacere, come luogo di estasi, che comporta tutta la sfera dell’erotico e del desiderio, e dall’altro lato come luogo di sofferenza, di patimento e infine di dissolvimento e di morte.

Lei ha affermato che la sua ricerca si basa sull’arte di saper bene come scrivere male. Che cosa voleva dire con questo paradosso?
C’è un mio verso che dice: Oggi il mio stile è non avere stile. Da un lato significa che non voglio chiudermi in una maniera di scrittura. Quindi in ogni mio libro cerco di affrontare problemi nuovi. Dall’altro lato intendo il non avere stile nel senso corrente della parola. Essere un uomo che ha uno stile vuol dire avere garbo e basta. Rifiutare uno stile, in questo senso, significa rinunciare a quella sorta di educazione cortese che spesso nasconde un’insincerità, una falsa gentilezza. Sapere bene come scrivere male, che agli occhi della gente può apparire come una mancanza di stile, di eleganza, è un modo di cercare di dire la verità.

I suoi versi nel corso degli anni si sono aperti sempre più alla quotidianità. In una sua poesia-ricetta si legge: Per preparare una poesia, si prende un piccolo fatto vero (possibilmente fresco di giornata)… Come mai è nato in lei questo bisogno?
La poesia che lei cita è molto ironica, si presenta come una ricetta di cucina. Questa poetica del piccolo fatto vero, della ricerca della quotidianità è diventata dominante in una lunga fase della mia scrittura anche se come al solito ho cercato di non chiudermi in uno stile. Passare da una poesia relativamente più astratta ad un eccesso di precisione, ad una poesia cioè iperconcreta mi tentava molto.

Nel nostro mondo mercificato, cosa dovrebbe fare la poesia?
Io credo che il problema sia, e in questo sono un materialista storico, riuscire ad essere realisti. Cosa vuol dire essere realisti? È questo il problema. Evidentemente ciascuno di noi ha un’opinione della realtà e di che cosa la rappresenti autenticamente. Gramsci diceva una cosa molto importante: Nella cultura non è importante avere nuove idee, chiunque è capace di sognare mondi belli e rosei. Bisogna invece cercare di indicare le linee di sviluppo, che sono continue, bisogna quindi aggiornare continuamente il modo di percepire la realtà. Da questo punto di vista, è poco importante la posizione politica finale che può assumere un autore. Quello che è importante è che da un lato vi sia una pulsione anarchica, originaria, di rivolta e di protesta, e dall’altro lato la capacità di dire: Questa è la realtà. La poesia può servire a far prendere coscienza di come stanno le cose.

Le sue poesie hanno sempre un carattere fortemente giocoso. Questo appare evidente anche nel sonetto inedito che lei ha scritto per Vicenza…
La mia poesia ha ripreso sempre di più delle forme di gioco verbale, ma non gratuito, ed è andata alla ricerca della contrainte, della costrizione. Scrivere un sonetto, ad esempio, vuol dire accettare certe regole. Se la regola viene accettata esasperando le complicazioni, vuol dire che non si sta cercando tanto il puro gioco quanto di sperimentare nuove forme di linguaggio. Il sonetto che ho scritto per Vicenza è forse, allo stato attuale, il sonetto più acrobatico che ho composto per le complicazioni con cui è costruito e le allusioni che vi sono presenti. C’è una frase famosa di Hölderlin che dice: La poesia è il gioco più serio che ci sia. Credo che questo elemento apparentemente giocoso, possa diventare uno strumento molto serio. Modificare una parola, un verso, complicarlo, non è un gioco arbitrario ma serissimo, perché attira l’attenzione sul peso che ha il linguaggio.

Lei si è definito un ottimista catastrofico. Cosa intende dire esattamente con questa definizione?
Il mio ottimismo è legato a quello che diceva Gramsci: L’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione. Proprio perché sono un pessimista catastrofico e considero che la catastrofe sia già avvenuta – si tratta solo di prenderne coscienza – bisogna cercare di moltiplicare l’ottimismo della volontà. È necessario che rinasca una coscienza critica di classe della massa enorme di proletari e sottoproletari di fronte alle élite di potere.

Sanguineti quindi è ancora un poeta rivoluzionario…
Sì, è una parola che mi piace molto. Non di riforme abbiamo bisogno, ma di rivoluzione nel senso marxiano della parola.

Fabio Giaretta

p.s. Oggi alle 18.00, ad AB23, Antonella Bukovaz presenterà la sua poesia con l’aiuto di Hanna Preuss, combinando voce, video e suono.
L’ingresso è libero, i posti a sedere limitati.

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On/off: la parola si unisce all’immagine e al suono.
Mercoledì 5 maggio, alle ore 18.00, Antonella Bukovaz porterà a Dire poesia, nello spazio recentemente “riconsacrato” di AB23, le sue opere Al limite (per voce e video) e Mai più (per voce, video e musica); quest’ultimo testo è parte dello spettacolo teatrale M.O.R.S. – Memoria. Ombre. Racconto. Silenzio (S.M.E.R.T. – Sence.Misli.Risbe.Takt), con la regia di Hanna Preuss.

Antonella Bukovaz

Antonella Bukovaz, italiana della minoranza slovena, è nata a Cividale del Friuli nel 1963, ma la sua origine si ritrova a Topolò-Topolove, borgo sul confine italo-sloveno, appunto, nelle valli del Natisone. Lì ha cresciuto le sue figlie e scritto le poesie che sono confluite nel libro Tatuaggi, edito da Lietocolle (2006).
Dal 1995 ha partecipato a diverse rassegne di arte contemporanea in Italia e in Slovenia; dal 2005 si dedica prevalentemente alla poesia e alle interazioni tra parola, suono e immagine in forma di lettura, videopoesia e video-audioinstallazione.
Nel 2008 ha scritto Storia di una donna che guarda al dissolversi di un paesaggio (Premio Antonio Delfini 2009) che è diventato un video con le musiche di Teho Teardo.
Per il teatro ha scritto il poema breve Maipiù-Nikolivec, rappresentato al Cankarjev dom di Ljubljana e al Teatro Miela di Trieste.
Suoi versi sono pubblicati su diverse riviste web e cartacee. Sue poesie sono tradotte in sloveno e tedesco.
Collabora alla realizzazione di Stazione di Topolò/Postaja Topolove.
Insegna, in lingua slovena, nella scuola bilingue di San Pietro al Natisone.
Ha collaborato con i musicisti Sandro Carta, Marco Mossutto, Antonio Della Marina, Teho Teardo e Hanna Preuss.

Hanna Preuss

Hanna Preuss è un’artista del suono e una compositrice. La sua attività ha avuto un’enorme influenza sulla scena slovena degli ultimi trent’anni, anche per le collaborazioni con i maggiori registi della cinematografia di quel Paese in più di 100 film, per le quali ha ricevuto numerosi premi internazionali. Da molto tempo è attiva anche nel campo dell’insegnamento.
Nel 2006 ha fondato l'”Hanna’s Atelier for Sonorous Art”, col quale esplora l’utilizzo del suono nel teatro, nel cinema, nelle arti visive, la danza contemporanea, l’architettura e il design. Vive e lavora a Ljubljana.

L’ingresso è libero (posti a sedere limitati).
Come sempre, al termine dell’incontro si potranno prendere i fogli con l’inedito di Antonella Bukovaz, stampato in tiratura limitata dai torchi a caratteri mobili dell’Officina.

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