La dolce, elegante, suadente, intensa poetessa indo-statunitense Meena Alexander ha vissuto ieri un’intensa giornata vicentina.
Nelle poche ore in cui è rimasta in città, ha firmato 120 fogli di inediti e 60 esemplari del suo primo libretto italiano Otto poesie (Sinopia, 2011; euro 6. Si può acquistare presso la Libreria Do Rode), apponendo poi un’altra cospicua serie di autografi, dediche e scritture su altrettanti supporti cartacei; ha visitato la Biblioteca Bertoliana, incontrando il Direttore Giorgio Lotto e la scrittrice Silvia Calamati; ha visitato l’Officina Arte Contemporanea, intrattenendosi con Giovanni Turria, Giuseppe Carollo, Giustino Chemello et alii; ha fatto sosta presso un parrucchiere del centro, accompagnata da una gentile amica conosciuta poco prima in città, ma trattata in modo complice e confidente; ha visitato il Teatro Olimpico e la collezione di icone di Palazzo Leoni Montanari, guidata da Isabella Sala; ha concesso un paio di interviste (su cui torneremo); e, incidentalmente, ha letto e spiegato i suoi splendidi versi a un auditorio numeroso, confortato dalle traduzioni e dalle note introduttive del prof. Marco Fazzini (Università di Venezia).
Pubblichiamo qualche documento della sua intensa visita a Vicenza (le ultime sette foto sono state scattate da Giustino Chemello).
Mi è venuta in mente solo dopo avere ascoltato le intense letture di Meena Alexander, sulla strada di casa, la domanda che avrei voluto farle. Ha scritto in tanti luoghi diversi, molto diversi fra loro. E anche in quelli che Augé chiama “non luoghi”: le sale d’aspetto degli aeroporti, delle stazioni ferroviarie, magari una stanza di ospedale. Ma allora, soprattutto per una poetessa della migrazione e dell’esilio, che legame c’è fra il luogo (o il non luogo) e la parola poetica? Siamo gli stessi in tutte le parti del mondo? Quanto ci plasmano i luoghi? E quanto solo alcuni sanno diventare luoghi dell’anima? E le radici, come la mettiamo con le radici? Così come siamo un po’ mogli e mariti anche di chi non abbiamo mai sposato, siamo anche cittadini onorari di luoghi in cui non abbiamo mai vissuto? O che abbiamo solo sfiorato? O forse siamo noi che diamo senso ai luoghi, che non sono scatole, non sono paesaggi, non sono a priori, ma sono plasmati, invasi, pervasi, creati da noi e dalla nostra poesia…
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